Entanglement, la sostanza di cui è fatto lo spaziotempo – The quantum source of space-time

Entanglement, la sostanza di cui è fatto lo spaziotempo - The quantum source of space-time

I buchi neri, come questo rappresentato nel film Interstellar, possono essere connessi tramite i wormholes, che potrebbero avere un’origine quantistica – Black holes such as the one depicted in Interstellar (2014) can be connected by wormholes, which might have quantum origins. Credit: Warner Bros. Entertainment/Paramount Pictures

Cari amici prima di farvi sapere quanto questo articolo mi risulti di un fascino sconfinato, vorrei con parole semplici ricordare a grandi linee cos’è l’entanglement e come funziona la meccanica quantistica. Marco Malaspina dell’Istituto Nazionale di Astrofisica parla di concetto “alieno” nel senso di sconosciuto e non facile da assimilare, certo, specie per chi si ferma alla concezione del macromondo di cui facciamo parte, ma se proviamo a pensare e a visualizzare la cosa da una prospettiva più ampia, potrebbe non suonare affatto così aliena, anzi.

Si, ma cos’è l’entanglement quantistico? Noi siamo abituati a pensare il nostro mondo situato in una dimensione in cui lo spazio-tempo determina il meccanismo fisico di causa-effetto: ovvero, per compiere una qualsiasi azione, anche la più veloce, ricordando che Einstein ci ha insegnato che nulla può andare più veloce della luce; dicevo, per compiere una qualsiasi azione si parte dal momento in cui si inizia l’azione, fino al compimento della stessa: esiste l’intercorrere del tempo, anche infinitesimale fra inizio e fine. Facciamo un esempio: su un tavolo ho una piccola sfera di cristallo, immobile al centro del piano. Ebbene, se decido di darle una spinta passerà del tempo fra il momento in cui tocco quella sfera e il momento in cui cadrà a terra. L’azione causa-effetto è chiara.

In fisica quantistica tutto ciò viene completamente ignorato ed invece esiste lo stato sincronico, detto “non locale”, dell’entanglement quantistico. Prendiamo due elettroni all’interno del loro orbitale. Sappiamo prima di tutto che secondo quanto stabilito dal Principio di esclusione di Pauli, dove si evince la possibilità che all’interno dello stesso orbitale possono esserci al massimo due elettroni e con spin (senso di rotazione) contrario, questi due elettroni siano quindi in stato di “Entanglement” che in inglese vuole dire “intreccio”. Questo meccanismo è assai più profondo di un semplice collegamento. Se decidiamo di separare questi due elettroni, portandone uno al polo nord e l’altro al polo sud e decidessimo di “osservare” il primo, questo cambierebbe senso di rotazione e l’altro, simultaneamente e sincronicamente, farebbe altrettanto. Non c’è spazio-tempo: il concetto di non-località è immediato, non c’è un prima e dopo, ma la simultaneità. Ma non è finita qui! Quando dicevo che basta “osservare” il primo elettrone per cambiarne lo spin, dicevo letteralmente: il semplice atto di “osservare” in fisica quantistica, non solo determina la posizione dell’oggetto osservato, ma lo modifica. Lo “crea”. Fino a che l’oggetto non è osservato esso esiste nella cosiddetta Funzione d’onda, una specie di area probabilistica. Quanto si parla di sincronicità si entra quindi di petto nel meccanismo dell’entanglement quantistico e del suo bizzarro ed unico Universo, le cui ripercussioni all’interno del macro mondo sono materia per me sorgente di continua ricerca e di fascino infinito.
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E se la risposta alla “domanda fondamentale sulla vita, sull’universo e tutto quanto” non fosse “42”, come calcolò in sette milioni e mezzo di anni il computer protagonista della “Guida galattica per gli autostoppisti” di Douglas Adams, bensì “entanglement”? È da decenni che fisici di tutto il pianeta sono alla ricerca della teoria con la ‘T’ maiuscola, quella in grado di far convivere meccanica quantistica e gravità – o meccanica quantistica e relatività generale, dove la gravità viene a coincidere con la geometria dello spaziotempo.

Ebbene, il trait-d’union fra le due potrebbe essere proprio l’entanglement. A sostenerlo, ricorda questa settimana un approfondimento a firma di Ron Cowen apparso sull’ultimo numero di Nature, a sostenere quest’inedito ruolo dell’entanglement, dicevamo, è il fisico della British Columbia University Mark Van Raamsdonk. Benché alieno alla nostra concezione della natura al punto da venir ripudiato dallo stesso Einstein, il fenomeno dell’entanglement fa capolino con regolarità infallibile non solo dalle equazioni della meccanica quantistica ma anche – senza mai perdere un colpo – dagli innumerevoli esperimenti che si sono susseguiti negli ultimi decenni nei laboratori di mezzo mondo. Insomma, sull’esistenza d’un legame ineffabile quanto profondo fra coppie di particelle tale da mettere in imbarazzo qualunque ragionevole assunto su causalità e località, velocità della luce in testa, sulla realtà di questa liaison dangereuse non c’è più alcun dubbio. Nella visione di Van Raamsdonk, però, visione che poggia su entità matematiche come il cosiddetto “spazio anti-de Sitter e sulla congettura di Juan Maldacena e Leonard Susskind, l’entanglement non si limiterebbe ad essere una bizzarra proprietà della meccanica quantistica. Sarebbe nientemeno che ciò di cui è fatta la geometria dell’universo. Detto altrimenti, se già Maldacena e Susskind avevano proposto una sorta d’equivalenza fra i concetti d’entanglement e wormhole – il tunnel che collega i pozzi gravitazionali scavati nella trama dello spaziotempo in corrispondenza dei buchi neri – ebbene, le equazioni di Van Raamsdonk spostano le conseguenze di quell’equivalenza un passo più in là, facendo intravedere una corrispondenza fra entanglement e la stessa geometria dell’universo: in altre parole, nella trama dello spaziotempo, il materiale della trama sarebbe proprio l’entanglement, quella inquietante azione a distanza che tanto sconcertava Einstein.

Servizio di Marco Malaspina – Media.Inaf.it

In early 2009, determined to make the most of his first sabbatical from teaching, Mark Van Raamsdonk decided to tackle one of the deepest mysteries in physics: the relationship between quantum mechanics and gravity.

After a year of work and consultation with colleagues, he submitted a paper on the topic to the Journal of High Energy Physics. In April 2010, the journal sent him a rejection — with a referee’s report implying that Van Raamsdonk, a physicist at the University of British Columbia in Vancouver, was a crackpot. His next submission, to General Relativity and Gravitation, fared little better: the referee’s report was scathing, and the journal’s editor asked for a complete rewrite. But by then, Van Raamsdonk had entered a shorter version of the paper into a prestigious annual essay contest run by the Gravity Research Foundation in Wellesley, Massachusetts. Not only did he win first prize, but he also got to savour a particularly satisfying irony: the honour included guaranteed publication in General Relativity and Gravitation. The journal published the shorter essay1 in June 2010. Still, the editors had good reason to be cautious. A successful unification of quantum mechanics and gravity has eluded physicists for nearly a century. Quantum mechanics governs the world of the small — the weird realm in which an atom or particle can be in many places at the same time, and can simultaneously spin both clockwise and anticlockwise. Gravity governs the Universe at large — from the fall of an apple to the motion of planets, stars and galaxies — and is described by Albert Einstein’s general theory of relativity, announced 100 years ago this month. The theory holds that gravity is geometry: particles are deflected when they pass near a massive object not because they feel a force, said Einstein, but because space and time around the object are curved. Both theories have been abundantly verified through experiment, yet the realities they describe seem utterly incompatible. And from the editors’ standpoint, Van Raamsdonk’s approach to resolving this incompatibility was  strange. All that’s needed, he asserted, is ‘entanglement’: the phenomenon that many physicists believe to be the ultimate in quantum weirdness. Entanglement lets the measurement of one particle instantaneously determine the state of a partner particle, no matter how far away it may be — even on the other side of the Milky Way. Einstein loathed the idea of entanglement, and famously derided it as “spooky action at a distance”. But it is central to quantum theory. And Van Raamsdonk, drawing on work by like-minded physicists going back more than a decade, argued for the ultimate irony — that, despite Einstein’s objections, entanglement might be the basis of geometry, and thus of Einstein’s geometric theory of gravity. “Space-time,” he says, “is just a geometrical picture of how stuff in the quantum system is entangled.”

Source/Continue reading → Nature.com

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